Inghilterra 1966: la Nazionale viene umiliata, si torna all’autarchia

Il primo abbozzo di autarchia il calcio italiano lo ebbe nella seconda metà degli anni venti del ‘900, quando la fascistizzazione del pallone portò alla ratificazione della Carta di Viareggio, con la conseguente “espulsione” dei giocatori stranieri che militavano nel nostro campionato (parzialmente aggirata dal ricorso agli oriundi).

La caduta del regime portò, nel secondo dopoguerra, alla riapertura delle frontiere.

Dal 1946 al 1950 furono quindi ben 115 gli stranieri che sbarcarono nel Belpaese.

Gre-No-Li
Il “Gre-No-Li”, ovvero il trio di svedesi del Milan: Gren, Nordhal e Liedholm

Un processo che non si arrestò fino al 1966. Un anno che rimarrà per sempre tristemente marchiato a fuoco nella storia del nostro movimento calcistico.

Quell’estate il Mondiale sbarca infatti per la prima volta in casa dei Maestri.

L’Italia è guidata da Edmondo Fabbri, che dopo un quinquennio sulla panchina del Mantova (portata dalla Serie D alla A) venne chiamato dai vertici federali a prendere in consegna la nostra nazionale, reduce dal deludente torneo iridato del 1962.

Il successivo quadriennio è un periodo importante del calcio italiano, milanese in particolar modo.

In quell’arco temporale, infatti, l’Inter vince per tre volte la Serie A (lasciando al Bologna di Bulgarelli il quarto titolo, vinto allo spareggio) e per due la Coppa dei Campioni, mentre il Milan si impone una volta – prima delle italiane, nel 1963 – nella massima competizione continentale.

Il calcio italiano, insomma, inizia a fare la voce grossa anche a livello internazionale, dopo che aveva praticamente dominato gli anni ’30 grazie ad una nazionale capace di vincere due Mondiali ed una Olimpiade.

Logico quindi aspettarsi grandi cose da quella Nazionale, che oltre allo stesso Bulgarelli vantava la presenza di campioni come Albertosi, Burgnich, Facchetti, Mazzola, Meroni, Rivera e Salvadore.

In più in tribuna faceva capolino anche un giovane Gigi Riva, portato in gita premio in quell’occasione, futuro miglior marcatore nella storia della Nazionale Italiana, un primato che con 35 reti all’attivo (due più di Meazza e cinque più di Piola) in 42 presenze resiste ancora oggi.

Quell’Italia venne inserita nel Gruppo 4, comprendente anche Unione Sovietica, Cile e Corea del Nord.

Le cose non iniziarono male per gli Azzurri, che s’imposero 2 a 0 sulla nazionale sudamericana all’esordio, grazie a Mazzola e Barison.

Nel secondo match del girone però Čislenko punì i nostri portacolori, che arrivarono quindi a giocarsi tutto contro i nordcoreani, a loro volta reduci da un sonoro 3 a 0 coi sovietici e dal pareggio 1 a 1 con i cileni.

Ai ragazzi di Fabbri sarebbe bastato anche solo un pareggio per accedere ai quarti di finale (dove con ogni probabilità, visto lo stato di cose, saremmo comunque stati eliminati dal Portogallo di Eusebio).

Contro ogni pronostico, però, l’Italia capitombolò, subendo quella che è probabilmente la più grande umiliazione della nostra storia calcistica.

Autarchia

Un goal di Pak Doo Ik ci costrinse a tornare a casa anzitempo, abbandonando una competizione in cui eravamo chiamati a fare molto meglio, tenendo fede alle imprese milanesi in Europa.

Fu quello uno stop probabilmente estemporaneo, subito lavato due anni più tardi con la vittoria dell’Europeo (e quattro anni dopo con la finale Mondiale persa contro il grande Brasile di Pelè).

Uno stop che però diede il la alla seconda autarchizzazione del calcio italiano.

Quel tonfo fragoroso fece saltare la FIGC.

Il nuovo consiglio federale decise quindi di correre ai ripari.

Se tra le due guerre mondiali il calcio italiano, a livello di rappresentative nazionali, aveva vissuto un momento di splendore assoluto, così non era stato nel secondo dopoguerra.

Fino ad allora, anche per via della Strage di Superga prima e di avvenimenti come gli arbitraggi particolari di Cile ’62, il nostro calcio aveva toccato quello che ancora oggi è il punto più basso della sua esistenza.

Nel 1958 non ci qualificammo addirittura ai Mondiali. Nel 50, 54, 62 e 66 uscimmo sempre al primo turno.

Contestualmente agli Europei non partecipammo nell’edizione del 1960 e non ci qualificammo alla successiva del 1964.

Se insomma i club, grazie al calcio all’italiana di Inter e Milan, stavano vivendo un primo momento di gloria internazionale, la Nazionale stava andando alla deriva. Urgevano soluzioni.

Ecco quindi che si pensò ad una terapia d’urto: com’era stato nel 1926 con la promulgazione della Carta di Viareggio, così anche in quel 1966 si optò per l’autarchizzazione del nostro calcio.

A quarant’anni esatti dalla prima chiusura delle frontiere decidemmo di tornare a chiuderci al mondo esterno, permettendo solo agli stranieri già presenti in Italia di continuare a vestire le maglie dei nostri club.

Picchi e Suarez
Picchi e Suarez

Il primo risultato fu, come scrive Mario Sconcerti nel suo “Storia delle idee del calcio” un’immediata – nonché ulteriore – perdita dello spettacolo. Furono ben 55 i goal segnati in meno rispetto all’anno precedente, quasi il 10% del totale.

Se da una parte il periodo che si aprì successivamente all’umiliazione del 1966 fu, come abbiamo visto, quello della rinascita della Nazionale Italiana, la chiusura agli stranieri portò al quasi totale eclissamento dei nostri club in Europa. Nei successivi anni, infatti, solo Milan e Juventus seppero imporsi al di fuori dei patri confini: i primi vincendo una Coppa dei Campioni e due Coppe delle Coppe, i secondi grazie alla Coppa UEFA del 1977.

Questo secondo periodo di autarchia durò quattordici anni.

Un lasso di tempo discretamente lungo, in cui la nostra Nazionale raccolse un secondo ed un quarto posto Mondiale (oltre ad un’eliminazione al primo turno), più un primo ed un quarto posto Europeo (oltre a due mancate qualificazioni).

La demineralizzazione dei nostri club, avvenuta proprio grazie alla chiusura delle frontiere, era però sempre più evidente. E se come detto l’Italia in quanto rappresentativa aveva ritrovato almeno parte dello smalto perso con l’eclissarsi dell’epoca di Vittorio Pozzo e del suo Metodo, i nostri club erano quasi ridotti al ruolo di comparse.

Ecco quindi che nell’estate del 1980 si decise di riaprire le frontiere, per fare in modo che nuovi stranieri potessero venire a contaminare un calcio bisognoso di fantasia, esotismo e voglia d’investire.

Le barriere di frontiera non vennero però, abbastanza ovviamente, rimosse completamente.

Nel corso di quel primo anno fu fissato ad un solo straniero per squadra il limite massimo raggiungibile (portato a due un paio d’anni più tardi).

Proprio durante quel calciomercato furono undici gli stranieri che sbarcarono in Italia:

Autarchia

L’anno successivo furono altri sette gli stranieri che vennero nel Belpaese, tra cui Walter Schachner (Cesena), già due volte capocannoniere della Bundesliga austriaca.

Nel 1982, ovvero dopo che l’Italia di Bearzot seppe tornare sul tetto del mondo vincendo il campionato iridato in Spagna, come abbiamo visto il limite venne portato a due. In quel calciomercato arrivarono 18 stranieri in blocco, tra cui il duo juventino Platini – Boniek ed il viola Passarella.

Nei quindici anni successivi alla riapertura delle frontiere la nostra Nazionale raccolse qualche delusione ma anche una serie di grandi risultati.

Oltre al citato Mondiale dell’82 raccogliemmo anche un secondo (1994) ed un terzo posto planetario (1990), ed arrivammo alla semifinale dell’Europeo 1988.

Non solo. Le nostre compagini di club tornarono a fare la voce grossa anche in Europa.

Tra l’80 ed il 1995 raccogliemmo infatti questi risultati:

  • 4 Coppe Campioni/Champions League (di cui 3 col Milan ed 1 con la Juventus) più 5 secondi posti. Ovvero sia fummo presenti in 9 finali su 15.
  • 3 Coppe delle Coppe (Juventus, Sampdoria e Parma), più 2 sconfitte in finale.
  • 6 Coppe UEFA (2 Juve, 2 Inter, più Napoli e Parma), con 4 sconfitte in finale. Ovvero 10 squadre presenti in finale in quindici anni, comprese tre finali tra squadre italiane).
  • In totale si parla di 13 trofei internazionali in 15 anni, nonché di 24 squadre arrivate all’ultimo atto di una competizione europea nel medesimo lasso di tempo.

Ancora una volta l’autarchia aveva quindi mostrato tutti i suoi limiti.

Sampdoria
La Sampdoria festeggia la Coppa Italia del 1989: l’anno successivo vincerà la Coppa delle Coppe

Riaprire le frontiere diede un forte impulso a tutto il nostro movimento, che seppe ridestarsi e tornare a vincere sia con la Nazionale che – molto – coi club.


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