La magia del calcio in altura

Da ragazzino ero totalmente in balia del mio amore per il calcio. Leggevo qualsiasi cosa mi capitasse a tiro, fantasticavo, mitizzavo, godevo dell’avere una passione così totalizzante. Tra le cose che hanno da sempre acceso la mia fantasia c’erano le famose partite giocate in altura, in special modo nel continente sudamericano.

Laggiù alla fine del mondo, come direbbe Papa Francesco, si staglia una delle catene montuose più importanti del mondo: le Ande. Un rincorrersi di cucuzzoli (altezza media 4mila metri) che partono dall’istmo di Panamá e corrono per tutto il continente, schiacciate sulla costa ovest, giù fino a Capo Horn.Ande centrali

La sua origine viene spiegata dalla teoria della tettonica a zolle: la collisione tra la placca di Nazca (oceanica) e quella sudamericana (continentale) ne causò l’orogenesi, un processo iniziato 200 milioni di anni fa e che ha portato alla formazione delle Ande per come le conosciamo oggi.

Nella parte centrale della catena, quella che si estende tra il nudo de Pasto e il Nevado Tres Cruces, troviamo poi il secondo altopiano montuoso più grande del mondo, dopo quello del Tibet: Meseta del Collao la cui altezza media è di circa 3650 metri e su cui sorgono alcune tra le più importanti città del Sud America occidentale, come La Paz, El Alto, Potosí e Cuzco.

Più in generale, proprio sulle Ande sorgono diciassette delle venti città con almeno 100mila abitanti più alte al mondo: questo ben spiega il perché nel mio immaginario di bimbo siano state proprio le partite giocate in altura a queste latitudini ad entrare con così tanta dirompenza.

Ma perché si dovrebbe discutere della altura dove ci si trova a giocare?

Nel 2007 alcuni medici assoldati dalla FIFA effettuarono uno studio – in previsione del Mondiale sudafricano, dove diverse partite si giocarono ad un’altezza già importante rispetto alla norma – al riguardo, definendo che già sopra i 500 metri si inizierebbero a far sentire i primi effetti dell’altitudine.

Effetti che vengono sintetizzati in fiato corto, diminuita resistenza, aumento del ritmo cardiaco.

Evidente però che ai 500 metri, quindi di fatto in collina, siano più che altro dei fisici poco allenati a risentire della differenza di altura rispetto al livello del mare. Da un calciatore professionista possiamo certo aspettarci ben altro.

Le cose iniziano però a farsi grigie un po’ per tutti quanto si arriva attorno ai 2mila metri. Qui, soprattutto se non ci si prende il tempo necessario ad abituare il proprio organismo ad un’altitudine poco consona alla propria normalità, si possono sentire i sintomi del cosiddetto “mal di montagna”: vertigini, nausea, scarsa forza muscolare.Sport in altura

Se poi saliamo sopra i 3mila metri (La Paz, sede del Governo boliviano, sorge a 3.640 metri sul livello del mare) ecco che il crollo delle prestazioni diventa evidente un po’ per tutti i fisici, anche quelli più allenati.

Come ovviare al problema, quando ci si trova a dover giocare in trasferta a queste altezze?

Con un lungo periodo di permanenza – e relativo allenamento – nella città in questione. Cosa che, ovviamente, non è di fatto possibile.

Basti pensare che in occasione del Mondiale 2010 Marcello Lippi portò la Nazionale Italiana al Sestriere per dieci giorni, proprio per acclimatarsi all’altura. Un periodo ritenuto però insufficiente dal professor Carlo Tranquillini, all’epoca direttore dell’Istituto di Medicina Sportiva del CONI.

Chiaro quindi che trovarsi a dover giocare a La Paz, ad esempio, una partita di qualificazione al torneo iridato non dà la minima possibilità alla squadra ospite di prepararsi in maniera adeguata, avendo un margine ridottissimo di giorni per effettuare il ritrovo, spostarsi in Bolivia e scendere poi in campo per il match.

Bolivia che non è un esempio fatto a caso: La Verde è storicamente, del resto, la nazionale che più tra tutte trae giovamento dall’opportunità di giocare le proprie gare interne a quei più di tremilaseicento metri di La Paz.

Prendiamo l’ultimo Mondiale cui i boliviani presero parte, quello del 1994.
All’epoca in Sudamerica non c’era il girone unico di qualificazione, come accade invece oggi. Al suo posto un duplice raggruppamento all’italiana, coi boliviani inseriti nel gruppo B assieme a Brasile, Uruguay, Ecuador e Venezuela.

Una situazione sicuramente non facile per i ragazzi di Xabier Azkargorta, che con due soli posti valevoli la qualificazione a disposizione dovevano vedersela con due delle grandi storiche del calcio sudamericano.

A fare la differenza fu quindi proprio l’altura.

Lontano dalle mura amiche La Verde seppe raccogliere una sola vittoria, il roboante 7 a 1 d’apertura con cui regolarono facilmente i modestissimi venezuelani.

Bolivia 7 - Venezuela 1 (1993)
Marco Etcheverry festeggia il goal del 7 a 0 contro Venezuela

Per il resto, solo un pareggio in Ecuador, all’ultima gara del girone. Accompagnato da due sconfitte, rispettivamente in Brasile (un 6 a 0 secco senza storia con cinque di queste marcature arrivate già nel primo tempo) ed in Uruguay (2 a 1, con le reti dei due italiani Francescoli e Fonseca).

Opposto il rendimento tenuto allo stadio Hernando Siles di La Paz, dove Etcheverry e compagni seppero raccogliere bottino pieno: vittoria all’ultimo contro il Brasile (un 2 a 0 per sfinimento, con goal arrivati all’88’ ed all’89’), 3 a 1 all’Uruguay, vittoria di misura sull’Ecuador (1 a 0 deciso da Luis Ramallo) ed altra goleada alla Vinotinto (7 a 1).

Otto punti in quattro partite, assolutamente decisivi. Con quel quid in più dato dalla maggior predisposizione a giocare in altura, un aspetto che risultò decisivo nelle sorti di quel girone di qualificazione.

Non solo. Proprio l’altura fu la prima killer del Brasile, che mai prima di allora aveva perso una partita di qualificazione ai Mondiali.

Fu infatti in quel 23 luglio del 1993 che i Verdeoro futuri campioni del mondo subirono quest’onta.

Il teatro di quel dramma fu lo stadio Hernando Siles di La Paz, costruito nel 1930 e dedicato al 31esimo presidente del Paese, casa di tre dei maggiori club boliviani: Club Bolivar, The Strongest e La Paz F.C.

Quel giorno il Brasile si presentò con una formazione di tutto rispetto: Taffarel (che proprio nel corso di quell’estate lasciò Parma per Reggio Emilia) in porta, difesa schierata con il pendolino Cafu (all’epoca ancora in forza al Sao Paulo) sulla destra, Válber Roel de Oliveira ed il bordolese Márcio Santos centrali, Leonardo (in procinto di lasciare Valencia per fare rientro in Brasile) nell’insolito ruolo di terzino sinistro.

Frangifluitti davanti alla difesa era invece Mauro Silva, reduce dalla prima delle sue tredici stagioni giocate con la maglia del Deportivo La Coruña.
Al suo fianco agivano quindi Luís Henrique Pereira dos Santos e Zinho, con Raí ad inventare alle spalle di Müller (che, tra le altre, in carriera ha vestito anche le maglie di Torino e Perugia) e Bebeto.

Certo non la nazionale brasiliana più forte della storia, ma comunque parte dello scheletro di quella squadra che solo dodici mesi più tardi solleverà al cielo la Coppa del Mondo, sotto il cocente sole del Rose Bowl di Pasadena.

Nonostante la differenza di tasso tecnico rispetto all’undici schierato dai padroni di casa (Trucco, Rimba , Quinteros, Sandy, Borja, Cristaldo, Melgar, Baldivieso, Etcheverry, Sanchez, Ramallo) fu proprio La Verde a spuntarla, come detto, prendendo i brasiliani per sfinimento.

A sbloccare il match, a due minuti dal termine, Marco Etcheverry, uno dei più grandi campioni della storia del Paese. Un goal segnato con la grandissima compartecipazione dell’emiliano Taffarel, che buttò in porta un cross basso scoccato dal numero 10 in verde, materializzando così la prima sconfitta brasiliana nella storia delle qualificazioni mondiali.

Taffarel che fu quindi protagonista assoluto di quel match, andando a parare un rigore nel primo tempo allo stesso Etcheverry, per poi marcare l’autorete che uccise i brasiliani.

A chiudere immediatamente il match, con un uno-due da k.o. tecnico, Alvaro Peña, subentrato a William Ramallo al cinquantasettesimo minuto.

Il problema dell’altura è stato affrontato, nel 2007, anche dalla FIFA.

Il 27 maggio di quell’anno, in seguito alle molte proteste ricevuto da federazioni che avevano pagato proprio lo scotto di dover giocare ai tremilaseicento e più metri di La Paz, il massimo organismo del calcio mondiale decise di non omologare gli stadi posti a più di 2.500 metri di altezza. Un limite di altitudine oltre il quale, appunto, non si sarebbe potuta giocare alcuna gara di qualificazione mondiale.

Dopo le proteste di molte celebrità, tra cui Diego Maradona ed il presidente Evo Morales, la FIFA decise di alzare questo limite, visto da molti come discriminatorio nei confronti di molte località delle Ande dove, fino a quel momento, si erano giocati diversi match ufficiali.Estadio Hernando Siles

Il 27 giugno, quindi, il limite venne alzato ai 3.000 metri. Il giorno dopo, infine, venne annunciato che lo stadio Hernando Siles avrebbe goduto di uno status speciale, potendo quindi continuare ad ospitare gare di qualificazione mondiale.

Se tutto quanto raccontato sino ad ora non vi basta date giusto un’occhiata allo score boliviano nelle qualificazioni agli ultimi tre Mondiali. Dove La Verde ha raccolto dieci vittorie e otto pareggi tra le mura amiche, con nessuna vittoria e due soli pari raccolti fuori dai patri confini.


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