Pablo Escobar: il legame tra droga e calcio

Nato a Rionegro – dipartimento di Antioquia – l’1 dicembre 1949, Pablo Escobar divenne nel corso dei suoi quarantaquattro anni di vita il più noto trafficante di droga del mondo.
Non solo: le sue attività criminali, che lo fecero ribattezzare “Re della Cocaina”, gli permisero di accumulare un patrimonio netto che nei primi anni novanta era stimato tra i 30 ed i 50 miliardi di dollari (a seconda delle fonti). Addirittura all’apice del suo successo la rivista americana Forbes lo reputò il più ricco uomo al mondo, imputandogli il controllo dell’80% del traffico di cocaina attivo nell’intero continentale americano e del 30% del mercato nero delle armi. L’organizzazione di cui era a capo, il famigerato “Cartello di Medellín”, veniva stimato incassasse circa 25 miliardi di dollari al giorno.Pablo Escobar

Insomma, si può dire Pablo Escobar fosse un vero e proprio genio del crimine, capace di costruire e controllare una delle organizzazioni delinquenziali più efficaci che la storia dell’uomo ricordi.

Nonostante questo nella Colombia a cavallo degli anni ottanta e novanta del novecento Pablo Escobar era considerato un eroe da molti suoi compatrioti, riuscendo ad accreditarsi come benefattore agli occhi di una parte dell’opinione pubblica colombiana grazie ai suoi investimenti in campi da calcio, scuole ed ospedali, che gli valsero la nomea di novello Robin Hood.

Ma quanto incise l’ascesa di questo torbido e spietato – fu il mandante di molte decine di omicidi – personaggio con il contemporaneo periodo d’oro del fútbol colombiano?

Il legame tra El Patron ed il calcio era forte, come confermato dalla sorella Luz Maria nel documentario dell’ESPN “The two Escobars”:

“Pablo ha sempre amato il calcio. Le sue prime scarpe furono da calcio, e morì in scarpe da calcio.”

Sui campi amava disimpegnarsi come ala sinistra a piede invertito: destro naturale, giocava largo e tagliava verso il centro, per cercare rifiniture e conclusioni.

Non era un vero atleta, ma amando il calcio gli piaceva confrontarsi sul campo con chiunque. Organizzò quindi diversi tornei, che gli diedero anche la possibilità di conoscere molti professionisti dello sport. Come René Higuita e Pacho Maturana, due degli eroi del calcio colombiano di quegli anni (il primo come portiere, il secondo come allenatore).

“Tutti parlavano di chi avesse donato quei campi, e Pablo Escobar era criticato per essere un signore della droga. Noi ci sentivamo solo fortunati di poterci giocare…”

Parole e musica di Leonel Alvarez, 101 presenze con la maglia Cafeteros tra il 1985 ed il 1995.Leonel Alvarez

Pablo Escobar non si limitò però solo a creare strutture dove si formarono molti calciatori di quegli anni.

All’apice del successo – criminale – El Patron e gli altri narcotrafficanti più importanti del paese avevano infatti quantità enormi di denaro da riciclare, e le semplici attività benefiche a favore delle proprie comunità non potevano bastare per quella massa di banconote.

Nacque così il narcofútbol, che portò al pompaggio di milioni e milioni di dollari nel calcio colombiano. Permettendo, tra l’altro, all’Atlético Nacional de Medellín, che in trent’anni e rotti di storia aveva vinto tre soli campionato nazionali, di arrivare ad ergersi sul tetto del continente, rischiando anche di conquistare il mondo in un’epica battaglia di strategia contro il Milan di Arrigo Sacchi.

Dell’epopea calcistica colombiana di quel periodo ne ha parlato anche Pacho Maturana, proprio l’allenatore che portò i Los Verdolagas a giocarsi la finale di Coppa Intercontinentale e che guidò la nazionale ai Mondiali del 1990 e del 1994:

“L’introduzione nel sistema calcio dei soldi della droga ci permise di ingaggiare grandi calciatori stranieri, nonché di impedire ai nostri migliori di lasciare il paese. Il nostro livello di gioco decollò. Le persone sapevano che Pablo Escobar fosse coinvolto in tutto ciò, ma non potevano provarlo.”

Ecco quindi che la Colombia nell’arco di una manciata di anni passò dall’essere un paese di secondo piano anche all’interno dello stesso continente sudamericano, al recitare un ruolo da protagonista o quasi.

Numeri alla mano, sino a quei scintillanti anni ottanta il calcio Cafetero contava infatti pochino: un solo secondo posto in Copa America (1975) ed una sola partecipazione mondiale (1962, fuori subito) a livello di nazionale, praticamente nulla a livello di club.

Con il sorgere del narcofútbol ecco invece arrivare i risultati: tre partecipazioni mondiali consecutive (1990, 1994 e 1998, quando ancora il calcio colombiano beneficiò dell’onda lunga di quel periodo storico), tre terzi ed un quarto posto in Copa America, il già citato trionfo dell’Atlético Nacional (unica imposizione di una squadra colombiana sino al 2004), più una serie di ottimi piazzamenti in Libertadores raccolti anche da Deportivo ed América de Cali, quest’ultimo club controllato da Miguel Rodriguez Orejuela, rivale di Pablo Escobar.Atletico Nacional

Proprio a seguito di un match giocato tra club controllati dai due (il Deportivo Independiente Medellín, altro club sotto il controllo del Patron, e l’América de Cali) si compì uno dei fatti cruenti più tragici della storia del narcofútbol, che iniziò a far capire come quel sistema non fosse solo rose, fiori e soprattutto tanti soldi pompati nelle tasche dei calciatori.

A raccontare l’accaduto Jairo Velasquez Vasquez, soprannominato Braccio di Ferro, sgherro di Pablo Escobar con all’attivo più di duecento omicidi compiuti su commissione del cartello:

“L’arbitro ci rubò apertamente il match. El Patron a fine match ci disse di trovarlo ed ucciderlo.”

Il direttore di gara in questione era Alvaro Ortega, che come potrete immaginare venne assassinato pochi giorni più tardi.

La stessa fine che fece anche il Ministro della Giustizia dell’epoca, Lara Bonilla, colpevole di aver aver rigettato l’immunità che Pablo Escobar si era guadagnato facendosi eleggere nel 1982 grazie al sostegno decisivo della working class colombiana.

Le cose, però, era logico non potessero continuare così per sempre.

Nel 1991 Pablo Escobar decide – o viene convinto – di consegnarsi spontaneamente alla polizia, per evitare l’estradizione negli Stati Uniti.
Come ricompensa per la sua costituzione gli viene quindi permesso di costruire una prigione, La Catedral, dove scontare la pena (cinque anni). Una sorta di fortezza lussuosa e privata, ovviamente con tanto di campo da calcio, dove venivano sovente organizzate amichevoli con tanto di star del calcio locale.La Catedral

Ad una di queste partecipò anche Óscar Pareja, all’epoca capitano proprio del Deportivo Independiente Medellín, che raccontò:

“Pablo Escobar parlava sempre di calcio, sapeva tutto. Quella volta mi disse: perché strilli sempre dietro agli arbitri? Li paghiamo noi…”

Un’altra volta a La Catedral fece invece la sua apparizione niente popò di meno che Diego Armando Maradona:

“Fui portato in una prigione circondata da migliaia di guardie, tanto che temetti di essere in arresto. Il posto era simile ad un hotel di lusso. Mi presentarono ad un signore, El Patron. Io non leggevo i giornali e non guardavo la tv, non avevo idea di chi fosse. Lo incontrai in un ufficio, mi disse che amava il mio gioco e che si identificava in me, perché anche io avevo trionfato sulla povertà. Giocammo e ci divertimmo. La sera ci fu poi un party, con le più belle ragazze che ho mai visto nella mia vita. Tutto ciò in una prigione! Non ci potevo credere. La mattina seguente venni pagato e me ne andai.”

Nonostante il lusso della soluzione scelta per la sua incarcerazione Pablo Escobar mal sopportava lo stato di cattività in cui si trovava a vivere, tanto che sovente lasciava La Catedral per andare a fare shopping in centro a Medellín o per andare allo stadio.

Nel luglio del 1992, quindi, la situazione degenera.

El Patron fugge da La Catedral, facendo perdere le sue tracce. Pablo Escobar ha però ormai troppi nemici per dormire sonni tranquilli: gli Stati Uniti, los Pepes (Perseguidos por Pablo Escobar, un gruppo autocostituitosi di perseguitati dal Re della Cocaina), il governo colombiano ed il relativo Bloque de Búsqueda, corpo speciale della polizia creato dal presidente César Gaviria proprio per dare la caccia al più famoso trafficante della terra.

La fine del capo del cartello di Medellín arriverà il 2 dicembre del 1993, quando sarà individuato in un quartiere borghese della città e, al termine di un inseguimento con tanto di sparatoria, ucciso dalla polizia colombiana.Pablo Escobar

Il narcofútbol, di fatto, durò poco di più: pochi anni più tardi anche il cartello di Cali venne decapitato.

Giusto il tempo per un ultimo terribile omicidio: quello che vide coinvolto uno dei migliori calciatori colombiani di quella generazione, Andrés Escobar. Reo di aver segnato l’autogoal che valse l’eliminazione al primo turno del Mondiale americano del 1994, il difensore dell’Atlético Nacional venne ucciso da una raffica di mitra nel parcheggio del bar Padua di Medellín.
Movente, pare, la grossa quantità di soldi che Andrés, con quell’autogoal, fece perdere ai cocaleros colombiani invischiati nel giro delle scommesse clandestine…


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