Palestino: un club o una seconda Nazionale?

A Santiago del Cile si possono trovare diversi club di calcio. Ad esempio tre tra i più importanti dell’intero paese: Colo Colo, Universidad Católica e Universidad de Chile. Poi altri meno conosciuti e famosi, come il Palestino.Palestino

Quella del Palestino è una storia particolare, fatta di migrazioni, legami affettivi con la patria d’origine, qualche rara vittoria.

Il Palestino non è infatti sicuramente annoverabile, al pari delle squadre citate in precedenza, come uno dei club più importanti del Cile. Non è quindi un caso se la sua bacheca annovera, in quasi cento anni di storia, solo due campionati di Primera B, due di Primera (oltre a quattro secondi posti) e due coppe nazionali.

Sei trofei, di cui solo quattro di livello, dal 1920 ad oggi.

Perché fu proprio il 20 agosto del 1920 che un gruppo di immigrati palestinesi fondò il club, per partecipare ad una competizione coloniale che si tenne in quel periodo ad Osorno.

Immigrazione palestinese in Cile che nacque negli anni cinquanta del milleottocento, durante la Guerra di Crimea, e si rafforzò nel corso della Prima Guerra Mondiale, per avere poi un terzo momento di fulgidità nel 1948, con la Guerra di Palestina.

Originariamente la maggior parte degli immigrati palestinesi partiva da città come Beit Jala, Betlemme e Beit Sahour, faceva una prima tappa intermedia in porti europei come Napoli o Marsiglia, ripartiva poi sino a raggiungere Buenos Aires o Rio de Janeiro per proseguire facendo altri milleduecento chilometri, questa volta via terra, sino in Cile.

Il perché venne creato il Palestino è semplice, quasi banale. Anche gli immigrati palestinesi in quel di Santiago, come gli immigrati di qualsiasi altro paese in qualsiasi luogo del mondo, sentivano la necessità di mantenere un legame con la propria terra d’origine, che nel più dei casi non avrebbero mai rivisto.

A ciò si aggiungeva ovviamente il fatto che i palestinesi, anche in questo caso come ogni altro gruppo etnico, tendevano a rimanere comunità abbastanza chiusa in sé, per quanto ospite in un paese straniero.

Niente di più facile, quindi, che creare una squadra di calcio – come ad esempio in Brasile facemmo noi con il Palestra Italia, l’attuale Palmeiras, o proprio in quel di Santiago dove fondammo l’Audax Italiano – che ricordasse la propria terra d’origine: il Palestino, appunto.Palestino

In più di centosettant’anni di storia la comunità palestinese in Cile è cresciuta molto, arrivando ad attestarsi attorno al mezzo milione di persone e rappresentando così la più grossa colonia palestinese che è possibile trovare al di fuori del mondo arabo. Numeri importanti, per un paese la cui popolazione totale è stata stimata a 18 milioni di cittadini un anno fa. Non è quindi un caso se in Cile c’è un detto che recita: “in tutte le città, anche piccole, possiamo trovare un prete, un poliziotto ed un palestinese”.

Il rapporto di questa comunità di migranti con il paese che li ha accolti non è sempre stato rosa e fiori, comunque. Se è vero che oggi quella palestinese è una comunità assolutamente integrata, è altrettanto certo che inizialmente furono anch’essi vittime di discriminazione. Ma, racconta l’attuale presidente del club Fernando Aguad a FourFourTwo, l’integrazione fu veloce, nonostante tutto. Siamo conosciuti per essere un popolo che sa integrarsi facilmente: ci affezioniamo al posto in cui ci troviamo a vivere, contribuiamo al benessere della comunità e da subito creammo un legame con i cileni, anche grazie al fatto che aiutammo a sviluppare commercialmente le città, creando così dei posti di lavoro di cui beneficiarono anche gli autoctoni”.

La prima formazione del Palestino fu composta esclusivamente da giocatori d’origine araba: Saffie, Zaror, Nicolas, Elias e Rafael Hirmas, Sarah, Yunis, Panayotti, Lama, Emilio ed Elias Deik. Questi i nomi degli undici che diedero vita ad un club dalla storia a suo modo gloriosa, pur non nella bacheca dei trofei.

Oggi invece non ci sono giocatori il cui cognome richiama la Palestina. L’ultimo fu Roberto Bishara, recentemente diventando allenatore in seconda. Nel corso della sua carriera vestì per ben dodici anni la maglia degli Árabes, come sono soprannominati in Cile i giocatori del Palestino. Oltre che in quaranta occasioni quella della nazionale palestinese.
“Inizialmente non potevamo giocare in casa, dovendo accontentarci di campi neutri in posti come il Qatar, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein. Il giorno più bello della mia carriera arrivò quindi nel 2008, quando potemmo finalmente giocare in casa, contro la Giordania. Fu un momento di gioia per un popolo abituato a soffrire”.Roberto Bishara

Nonostante anche il Palestino sia stato investito dalla globalizzazione, il legame con la terra d’origine resta forte. Tanto che in occasione del match di ritorno del playoff che qualificava alla Copa Libertadores dello scorso anno il presidente palestinese Mahmoud Abbas scrisse ai giocatori cileni una lettera d’incoraggiamento, parlando del Tino (altro soprannome del club) come di una seconda nazionale.
Un incitamento che evidentemente deve aver caricato i giocatori, che nonostante la sconfitta di Montevideo contro il Nacional di Álvaro Recoba (subentrato al sessantacinquesimo a Sebastián Fernández, in quell’occasione) riuscirono a passare il turno e qualificarsi per la fase a gironi della competizione (chiusa al terzo posto dietro a Boca Juniors e Montevideo Wanderers).

Un’avventura, quella in Libertadores, che non ha coinvolto solo la folta comunità di immigrati in Cile (il match di debutto contro il Boca richiamò all’Estadio Municipal de La Cisterna circa tredicimila persone, nonostante la capacità ufficiale sia limitata a dodicimila posti), ma anche buona parte della Palestina.
Nonostante i circa quindicimila chilometri di distanza molti bar del paese vennero presi d’assalto in piena notte: i match degli Árabes in Copa vennero infatti trasmessi da Al Jazeera, riscuotendo un grandissimo successo di pubblico a Ramallah e dintorni.

Che il legame del Tino con la terra d’origine dei suoi fondatori sia forte lo si era comunque già ben capito anche un anno prima, nel gennaio 2014. Quando i dirigenti del club, per testimoniare la loro vicinanza alla causa palestinese, decisero la creazione di una maglia particolare: il numero “1” (quindi quello del portiere, più tutti quelli relativi alla decina tra il 10 ed il 19) venne soppiantato da una figura molto simile, rappresentante la sagoma della Palestina prima della creazione di Israele.

Una decisione che scatenò moltissime polemiche e che finì col fare il giro del mondo.

La maglia con l’1 modificato venne usata in tre match, per altro nessuno dei quali chiuso con una sconfitta sul campo. A quel punto venne bannata dalla Federazione cilena, che la ritenne discriminatoria nei confronti degli ebrei.Palestino

Così, oltre a non poterla più indossare, gli Árabes si presero anche 1.300 dollari di multa. Soldi però facilmente recuperati grazie alla vendita della stessa come merchandising: un pezzo che andò a ruba, ovviamente soprattutto in Palestina.

Quello tra il Palestino e la sua terra d’origine è un legame quasi simbiotico. Anche i calciatori cileni non-arabi che crescono nel suo settore giovanile, infatti, si appassionano quasi sempre e irrimediabilmente alla causa palestinese. Questo anche grazie ai viaggi, già tre, che i dirigenti del club hanno organizzato in Medio Oriente, proprio per rinsaldare questo legame.

Che da cinque anni a questa parte è anche economico. Da quando cioè la Bank of Palestine decise di firmare un contratto di sponsorizzazione a lunga scadenza (vent’anni) proprio per sostenere l’attività sportiva del Tino.

Che adesso pare stia pensando alla costruzione di un nuovo stadio, che il presidente Aguad vorrebbe integrare come “parte della comunità”. Uno stadio che, se le finanze del club lo permetteranno, sarebbe progettato dalla Populous, autrice già dei progetti del Da Luz di Lisbona e dell’Emirates di Londra.

Lo step successivo, per una società che è ritenuto abbia uno dei migliori settori giovanili del paese, sarà quindi quello di cercare di portare qualche giocatore d’origine palestinese in prima squadra, per concretizzare ancor più il legame con la terra da cui provennero i fondatori del club.

Insomma, i responsabili del settore giovanile del Palestino dovranno riuscire a produrre tanti nuovi Luis Antonio Jiménez (che a discapito del nome è originario della Palestina, di cui dal 2013 possiede anche il passaporto), trequartista tecnicamente dotatissimo di cui molti si ricorderanno, avendo vestito tra le altre le maglie di Ternana, Fiorentina, Lazio, Inter, Parma e Cesena.
Un giocatore che in carriera ha raccolto sicuramente meno di quello che le sue qualità gli avrebbero permesso, tanto che oggi, ormai da quasi cinque anni, sverna in quel di Dubai, tra Al-Ahli e Al-Nasr.

Il momento di maggior splendore nella sua storia recente il Palestino l’ha toccato nel 2008, quando arrivò a giocare (e perdere, con un 4 a 2 complessivo dopo l’1 a 1 della gara di andata) la finale del Torneo Clausura contro il Colo-Colo del paraguayano Lucas Barrios, di lì a un anno ceduto ai tedeschi del Borussia Dortmund.Lucas Barrios


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