Pietro Vierchowod: lo Zar della difesa

Ebbi la fortuna di conoscerlo, Pietro Vierchowod.

Andai a Londra per partecipare ad un evento dell’ormai defunta Indesit (azienda assorbita dal colosso Whirlpool) e ci potei giocare, con lo Zar. Una cinquantina d’anni portati benissimo. Un fisico ancora robusto, due quadricipiti che avrebbero fatto invidia a molti calciatori professionisti che in quel momento calcavano i campi della nostra Serie A.Pietro Vierchowod

Il livello della partita era tale per cui lui, nonostante l’età, dominasse tranquillamente l’area di rigore.

Partita di calciotto, prende palla a centrocampo e scarica in porta di sinistro. Il palo credo tremi ancora oggi, a distanza di anni.

Figlio di un soldato dell’Armata Rossa – Ivan Lukjanovič Vierchowod, nativo di Kiev, odierna Ucraina – fatto prigioniero in Italia (Bolzano, Pisa e Modena) nel corso della Seconda Guerra Mondiale, Pietro Vierchowod nasce a Calcinate, in provincia di Bergamo, il 6 aprile 1959. Dove proprio il padre si era imboscato al termine della Grande Guerra, consapevole che se fosse tornato in Unione Sovietica sarebbe finito in qualche gulag siberiano.

Essere un ragazzino negli anni settanta non era come esserlo oggi.
Pietro Vierchowod viene instradato al lavoro sin dalla giovanissima età, diventando manovale ed idraulico prima ancora che calciatore.

Cosa che rischia di non diventare proprio: cresce nel piccolo Spirano, andando a fare un provino col Milan all’età di 16 anni. Dove viene però scartato.

A quel punto in molti avrebbero potuto decidere di mollare. Non certo lui, che tornato a casa deciderà di fare comunque uno step di carriera andando a giocare nella Romanese, in Serie D.

Una sola stagione, tra i sedici ed i diciassette anni, e qualche scampolo di match, giusto per sentire l’odore dell’erba ed iniziare a testarsi contro avversari di un certo livello.

Poi, nell’estate del 1976, il salto nel professionismo: a puntare su Pietro Vierchowod il Como, all’epoca militante in Serie B, che lo acquista e lo inserisce nel proprio settore giovanile.

L’esordio in prima squadra arriva l’anno successivo, quando lo Zar inanella una serie di presenze già discretamente importanti (16) in un campionato però sfortunato per il Como, che cambia tre allenatori (Gennaro Rambone, Luis Suárez e Narciso Pezzotti, che salirà dalle giovanili per traghettare la squadra dalla venticinquesima giornata in poi) e retrocede in C1 assieme a Modena e Cremonese.

Pietro Vierchowod - ComoProprio qui inizia la scalata al grande calcio di Pietro Vierchowod.

Sulla panchina lariana viene richiamato Giuseppe Marchioro, che decide di puntare forte sullo Zar, promosso a titolare indiscusso della difesa comasca.

Pezzotti e Marchioro, due allenatori importanti nella carriera del centrale di Calcinate, che li ha ricordati così in un’intervista rilasciata al Guerin Sportivo:

Devo molto a due persone. Narciso Pezzotti, mio allenatore nelle giovanili: mi fece crescere molto dal punto di vista tecnico. Il secondo è Pippo Marchioro, il mister delle due promozioni. Un personaggio carismatico, uno dei primi a fare la zona. Per la prima stagione mi obbligò tutte le mattine a fare due ore di allenamento con lui. Pallone con la corda e tanto muro. E poi, al pomeriggio, la seduta con tutta la squadra

La mossa di puntare su Pietro Vierchowod paga, se è vero che al termine della stagione lo Zar vincerà, ex aequo con Carlo Ancelotti, il Guerin d’Oro come miglior giocane della categoria, aiutando fattivamente il Como a guardare tutti dall’alto in basso, vincendo il Girone A con sei punti di vantaggio su Parma e Triestina e tornando immediatamente in Serie B.

Dove, inaspettatamente, arriva la replica: forte della miglior difesa del campionato (solo 17 goal subiti in ben 38 gare) i lariani compiono un duplice salto mortale in avanti, vincendo anche il campionato cadetto e guadagnandosi l’approdo in Serie A.

Nell’arco di una manciata di anni, quindi, Pietro Vierchowod passa dall’essere stato scartato dal Milan al potersi giocare la chance di esordire nella massima serie italiana.

Esordio che rischia però di essere rimandato: nel corso di quell’estate la Sampdoria del presidente Paolo Mantovani ne acquista il cartellino, ma il ragazzo si rifiuta di tornare a giocare in Serie B, costringendo la società blucerchiata a lasciarlo un anno in prestito a Como, che si salva.

La Samp, invece, non c’entra la promozione. E si ripete lo scenario dell’estate precedente: Pietro Vierchowod rifiuta di retrocedere in cadetteria, Mantovani si trova nuovamente costretto a prestarlo in Serie A. Questa volta, però, alla Fiorentina, giunta quinta l’anno precedente e pronta a tentare l’assalto allo Scudetto.

Oltre allo Zar, infatti, quell’anno sbarcano a Firenze anche Cuccureddu, Pecci, Graziani e Massaro. Ed il miracolo per poco non si compie: i Viola chiudono infatti al secondo posto, un punto alle spalle della Juventus, che proprio in quell’occasione si appunterà sul petto la seconda stella.

Pietro Vierchowod - Spagna 1982Dopo un inizio difficile Pietro Vierchowod entra in piena sintonia con la squadra e la piazza, risultando essere uno dei perni fondamentali in quell’ottima stagione. Che chiuderà però, purtroppo, con un problema alla caviglia, che ne minerà il rendimento al Mondiale di quell’anno. Sì, quello vinto dagli Azzurri in Spagna, dove Pietro Vierchowod, pur presente, non scenderà mai in campo nemmeno una volta.

Passata l’estate è tempo quindi di riconcentrarsi sui club.

La Sampdoria è fresca di promozione in Serie A. Detenendone il cartellino, sembra quindi logico che lo Zar inizi ad indossarne la maglia, nonostante la sua volontà di rimanere a Firenze.

Invece il presidente Mantovani stupisce tutti, per primo lo stesso Pietro Vierchowod: avendo ricevuto, pare, pressioni da Giuglio Andreotti gli chiede di “fargli un favore” ed accettare il prestito a Roma. Una soluzione che lo stopper accetta un po’ controvoglia, ma che si rivelerà ideale:

Arrivato in ritiro, a Brunico, trovai una tavolata con wurstel, salsicce, birra. Una pacchia. Liedholm lasciava fare. A lui bastava che in allenamento e in campo facessimo il nostro dovere. Al primo allenamento il Barone non mi disse nulla. Mi mise in mezzo tra Nappi e Nela, dietro a Di Bartolomei. Pronti-via e in difesa non ci rimane più nessuno. Quell’anno non superai mai la metà campo. Me lo disse esplicitamente, Liedholm, dopo la sconfitta contro la Samp alla terza giornata.
A Roma vissi una stagione indimenticabile, un campionato bellissimo, quello della mia consacrazione. Vincemmo lo Scudetto, che mancava da 40 anni. Fu magnifico vedere l’intera città dipinta di giallorosso, perfino le strisce pedonali.

Scudetto significa anche qualificazione alla successiva Coppa dei Campioni. Che Pietro Vierchowod, ovviamente, vuole giocare.

Così, nuovo scontro col presidente Mantovani, che non vuole assolutamente lasciarlo a Roma. I due battibeccano, arrivano alla rottura. Lo Zar rischia di rimanere a Genova, ma da fuori rosa.
Poi interviene Paolo Borea, D.S. doriano, e la situazione si ricompone.

Inizia così, anche nei fatti, il lungo matrimonio tra Pietro Vierchowod e la Sampdoria, che durerà ben dodici stagioni, tutte giocate da titolare dallo Zar.

Una situazione, quella vissuta in blucerchiato, che lo stopper d’origine ucraina definisce quella di una “famiglia felice“, con uno zoccolo duro di sette-otto giocatori a guidare lo spogliatoio ed un rapporto come quello tra padre e figli con il presidente Mantovani.

Tanto che nell’estate del 1989 il trio blucerchiato Vierchowod-Mancini-Vialli potrebbe trasferirsi in blocco in bianconero. Ad affermarlo è la Gazzetta dello Sport, a confermarlo oggi lo stesso Zar. Poi, però, il presidente decise di tornare sui suoi passi, non disfando il giocattolino Sampdoria.Scudetto Sampdoria 1990/1991

Un ripensamento doveroso e fortunato, sublimato dalla vittoria del Tricolore, stagione 1990/1991.

Allenatore, Vujadin Boskov:

Altro personaggio carismatico. Non un mago di tattica. Per il resto, grandissimo motivatore. Sapeva toccare le corde giuste e aveva un’incredibile capacità di sdrammatizzare ogni situazione. Io non l’ho mai visto arrabbiato. In più, era una persona intelligente e furba. Sapeva ascoltare, ma decideva di testa sua: una volta ci fece capire che voleva tenere fuori Cerezo per far giocare Katanec. Allora con Mancini e Vialli ci organizziamo per fargli cambiare idea. Si decide che debba parlarci io. Vado, gli dico cosa pensiamo, lui fa finta di accogliere la nostra proposta, ma poi la domenica mette Katanec. Che segna il goal-partita. Io mi sarei sotterrato.

Scudetto, anche in questo caso, significa Coppa dei Campioni. Che, finalmente, Pietro Vierchowod può disputare da protagonista, dopo non averla potuta giocare con la Roma.

La squadra è forte, l’impresa viene solo sfiorata: 1 a 0 del Barcellona in finale, a pochi minuti dai calci di rigore. Un grande risultato dal punto di vista sportivo, ma anche una grande delusione da quello umano. E, soprattutto, la fine di un’epoca: pochi giorni dopo quella sconfitta Vialli passa alla Juventus, si chiude di fatto un ciclo.

Un anno più tardi muore Paolo Mantovani, rimpiazzato dal figlio Enrico. Con cui però non scatta la scintilla.

Nel 1995 il neo presidente doriano offre a Pietro Vierchowod un rinnovo del contratto alla metà dell’ingaggio, offerta subito rispedita al mittente.

La Fiorentina, imbeccata dall’ex compagno in Viola ed Azzurro Antognoni, si fa avanti con un triennale, ma tentenna a chiudere.

Narciso Pezzotti (ricordate? Suo grande maestro nelle giovanili del Como), diventato preparatore alla Juventus, convince Marcello Lippi. Luciano Moggi si muove rapido, il contratto viene firmato in un attimo: Pietro Vierchowod si trasferisce a Torino. Con un intento chiaro: esorcizzare la finale del 1992 ed issarsi sul tetto d’Europa.Pietro Vierchowod - Juventus

In bianconero lo Zar ci resterà solo un anno, stagione 1995/1996. Giusto il tempo di vincere la Champions League.

Le primavere, a quel punto, sono già 36. Tante, forse troppe per la Juventus.

Lippi a fine stagione ci parla, gli comunica che dall’Atalanta sta arrivando Paolo Montero, con cui dovrà giocarsi il posto. Lo stopper italoucraino accetta, ma pochi giorni dopo Moggi lo scarica, cedendolo al Perugia.

In Umbria Pietro Vierchowod ha però da subito problemi con l’allenatore dell’epoca, Giovanni Galeone. Dopo una manciata di settimane, quindi, lo Zar molla tutto, rimanendo senza squadra e respingendo i successivi attacchi di Gaucci, che vorrebbe riportarlo in squadra.

Prima dell’inizio del campionato arriva quindi la chiamata del Milan, che quell’anno parte con Óscar Tabárez come Direttore Tecnico e che all’undicesima di campionato richiama Arrigo Sacchi.
Le cose vanno male, la squadra chiude all’undicesimo posto, a sei soli punti dalla zona retrocessione.

In estate, quindi, un nuovo trasferimento, l’ultimo della lunghissima carriera di Pietro Vierchowod: arriva la chiamata del Piacenza, con cui lo Zar disputerà gli ultimi tre campionati di Serie A, chiudendo la carriera nell’estate del 2000.

Io avrei continuato. Ma Gigi Simoni disse che ero troppo vecchio. Mi sono fermato a 562 presenze in Serie A, a otto lunghezze da Zoff, che all’epoca deteneva il record assoluto.

A tutt’oggi Pietro Vierchowod è il sesto giocatore più anziano ad aver disputato una gara di Serie A, a 41 anni e 10 giorni.Calciatori più anziani della Serie A

Se la carriera di club dello Zar è stata assolutamente di alto livello, nonché condita dalla vittoria di due campionati, quattro Coppe Italia, due Supercoppe Italiane, una Serie B ed una C1, una Coppa delle Coppe ed una Champions League, quella in Nazionale fu sicuramente meno fortunata.

Gennaio 1981, Mundialito in Uruguay.

All’epoca, come abbiamo visto, Pietro Vierchowod è ai suoi primi approcci con la Serie A, a Como. Enzo Bearzot lo lancia titolare contro l’Olanda, gara d’esordio anche per Carletto Ancelotti (che segnò, nell’1 a 1 definitivo). Lo Zar diventa il primo – e sinora unico – giocatore lariano a vestire la maglia Azzurra.

Tre mesi più tardi la seconda presenza, questa volta ad Udine contro la Germania dell’Est.

Poi più nulla, sino all’ottobre del 1983.

In mezzo l’ottima stagione di Firenze e la convocazione per il Mundial del 1982, che come abbiamo visto Pietro Vierchowod non riuscì però a disputare visti i problemi ad una caviglia (che, in tema di sliding doors, permisero allo Zio Bergomi di lanciarsi nel grande calcio sostituendo Collovati nella finale contro i tedeschi dell’Ovest).

Poi gioca tre gare di qualificazioni agli Europei successivi, che l’Italia chiude malissimo, non riuscendo a strappare il biglietto per la rassegna continentale.

La maglia Azzurra, per lui, diventerà una sorta di tabù:

Nel 1986 sappiamo tutti com’è andata. Era il mio Mondiale, ma Bearzot puntò troppo sugli eroi del 1982. Poi per tre anni non sono più stato convocato, fino a un’Italia-Olanda [amichevole del febbraio 1990 giocata a Rotterdam e chiusa 0 a 0, ndr]. C’era da marcare Van Basten e io ero uno dei pochi che sapeva tenerlo. Tornai e Vicini mi promise che mi avrebbe portato ai Mondiali nel 1990, con l’intento di utilizzarmi per marcare i fuoriclasse. Invece feci tre partite inutili. Contro l’Argentina avremmo dovuto giocare io e Ancelotti, ma non andò così. E guarda che quel Mondiale l’avremmo vinto, la Germania di Matthäus non era un granché. Infine, arriviamo al 1994. Lì fu una scelta mia. Sacchi non mi affrontò direttamente, mandò Carlo Ancelotti a sondare. Io dissi che in America a fare la riserva non sarei andato. Ricorderete che si fece male Baresi. Avrei potuto giocare il mio quarto Mondiale, ma va bene, chiudiamola qui.

La sua carriera in nazionale si chiuderà quindi il 14 aprile del 1993, a Trieste, in un 2 a 0 rifilato dagli Azzurri all’Estonia, in un match valevole per le qualificazioni a quel Mondiale cui lo stesso Zar, come detto, si rifiuterà di partecipare.Vierchowod - Italia 90

Pietro Vierchowod è stato indubbiamente uno dei più forti marcatori della sua generazione. E forse non solo.

Strutturato, forte fisicamente e molto veloce, sapeva stare incollato al proprio uomo e marcarlo in maniera asfissiante, oltre che lottare su ogni pallone come un vero soldato dell’Armata Rossa.

Maradona disse di lui che era il difensore che avrebbe voluto non affrontare mai, essendo arcigno e instancabile nel tornargli addosso anche una volta saltato. Proprio del Pibe fu uno dei soprannomi più azzeccati che siano stati affibbiati a Pietro Vierchowod: Hulk.