Sindrome Ibrahimovic

Non ricordo in quale versione dell’allora Championship Manager lo scoprii, ma fu subito amore. Un 18enne imberbe, dalle discrete qualità fisiche, tecniche e mentali, che compravo puntualmente ad ogni partita che iniziavo. Perché a discapito del valore effettivo e di quello potenziale, il Malmö si accontentava di un prezzo accessibilissimo.
E così, per gioco, iniziai a fare conoscenza – per quanto solo videoludica – con un ragazzotto svedese che avrebbe segnato i successivi quindici anni di calcio europeo in maniera unica e profonda, tanto da creare quella che definirei come la “Sindrome Ibrahimovic“.

Sindrome Ibrahimovic

Perché Zlatan non è stato un giocatore come gli altri.
Non tanto per una questione di valore assoluto, quanto di unicità e capacità accentrativa.

La punta svedese ha portato in sé un mix tra i più esclusivi che la storia del calcio abbia potuto conoscere. Un insieme di fisicità (195 cm x 95 kg), forza, flessibilità, coordinazione, qualità tecnica e capacità di lettura davvero originale nel suo genere, se è vero che tradizionalmente, prima dell’avvento del calcio postmoderno, i giocatori con le sue peculiarità fisiche erano più che altro prime punte di posizione che sportellavano i difensori a tutto andare per cercare la sponda giusta, la creazione di un buco ad uso e consumo di un compagno o ancora la deviazione vincente sotto porta.

Zlatan Ibrahimovic ha quindi saputo in qualche modo riscrivere la storia e dare il la ad un modo nuovo di interpretare la figura del centravanti di peso, se è vero che si è trovato spesso a giocare più fuori area che non all’interno della stessa.

Lo svedesone d’origine balcanica rappresenta ancora oggi un’icona anche per il proprio modo di essere e vivere fuori dal campo, istrionico e follemente egocentrico.

Una personalità che si è riflettuta anche nel rettangolo di gioco, se è vero che, come dice la legge del grande Nereo Rocco, in campo si sta come nella vita.

E allora basta chiudere gli occhi per rivederlo, folle dominatore dei dintorni dell’area di rigore, col suo modo guascone di sfidare arbitri, avversari ed a volte anche compagni.
Zlatan non ha ancora smesso ma ha già reso sé stesso una leggenda, almeno agli occhi di chi è davvero innamorato di questo gioco e sa guardarlo senza lenti colorate con le tinte della propria squadra del cuore a fare da filtro.

Perché Ibrahimovic è stato eccessivo e sfrontato, amato e odiato, gioia e dolore, trascinante e fragile nello stesso momento.

Non è stato e non rimarrà, credo, uno dei miei giocatori preferiti di sempre, perché questo giudizio è accompagnato da quella componente irrazionale che mi fa sbavare letteralmente pensando a Roberto Carlos ed Edgar Davids, ad esempio, ma mi lascia più freddo di fronte ad altri campioni di egual se non maggior valore.

Ma un conto è la soggettività insita in un giudizio, un altro l’oggettività.

E allora ammettiamo senza remore la grandezza di un giocatore che ha saputo giocare su livelli sensazionali in carriera, collezionando titoli nazionali come fossero tappi di bottiglia pur senza riuscire – ancora – a concretizzare quel sogno che è diventato maledizione e che risponde al nome di Champions League.

C’è però qualcosa che va al di là del suo valore assoluto come calciatore e si concretizza nella capacità che gli è propria di condizionare una squadra. O, volendo, nella sua incapacità di integrarsi in essa.

Prescindiamo dal valore assoluto, ripeto, e guardiamo semplicemente come Messi ed Ibrahimovic abbiano saputo calarsi nei rispettivi ambiti di gioco.

Probabilmente proprio partendo da una differenza caratteriale che dall’esterno sembra abissale, il fenomeno argentino si mostra essere un ingranaggio d’oro massiccio perfettamente inserito nel contesto Barcellona, che esalta con le sue giocate e da cui viene contestualmente esaltato con un gioco che ne valorizza i punti di forza.

Di contro Zlatan Ibrahimovic sembra sempre essere un singolo calato in un contesto di squadra, che vuole però dominare e soggiogare alla propria grandezza. Spesso anche con buoni se non ottimi risultati, ma sempre e comunque come solista che vuole prendersi tutta la scena, senza bisogno di una band a supporto per comporre melodie indimenticabili.

Se da un punto di vista fisico e tecnico al ragazzone di Malmö sembra davvero non mancargli nulla, è probabilmente questa necessità di ergersi al di sopra di tutto che può averne in qualche modo limitato la definitiva consacrazione tra le leggende del pallone, in un’epoca calcistica che prima che per le sue giocate verrà sicuramente ricordata – tranne forse a Parigi – per i goal, i numeri ed i trofei internazionali alzati dalla coppia Cristiano Ronaldo – Messi.

Sindrome Ibrahimovic

La Sindrome Ibrahimovic è quindi questa sua capacità di essere condizionante per l’intera squadra, all’interno di un contesto collettivo in cui ben undici individualità dovrebbero fondersi per dare vita ad un complesso di voci in cui sì gli acuti dei singoli possano fare la differenza, ma che coro dovrebbe comunque restare.

Ibrahimovic è invece quel rocker che anche da solo, con la sua energia, sa trascinare il pubblico, abbagliato dal suo carisma, la sua malcelata fragilità di ragazzino cresciuto ai margini ed il suo sconfinato talento.

Guardare giocare Ibrahimovic è un piacere per gli occhi, perché il sale del nostro sport preferito sono le giocate che spezzano il fiato in gola.

Ma ad una più attenta analisi emerge chiaramente come quello di Zlatan sia un calcio molto poco democratico. Tutto deve passare ed essere gestito da lui, che deve poter decidere a proprio piacimento quando e quanto concludere, quanto e quando rifinire.

Attenzione, non sto dicendo si tratti di un giocatore egoista in senso stretto, perché la realtà ci ricorda che Ibrahimovic è un grandissimo assistman, con quella sua capacità di giocare a ridosso dell’area di rigore, ricevere e proteggere palla, saltare il diretto marcatore ed inventare traiettorie fatate.
Del resto se volessi intendere che Zlatan è un giocatore egoista a tutto tondo ignorerei deliberatamente quanto seppe far fare – tra gli altri – ad un certo Antonio Nocerino al suo primo anno in Rossonero. Dove con le sue giocate a creare spazio e rifinire il gioco permise all’ex centrocampista del Palermo di andare in rete ben 10 volte solo in campionato. Davvero niente male, se si pensa che lontano da Milano lo stesso mediano campano è stato capace di segnare in tutto 9 goal in Serie A…

No, dicevo, Zlatan Ibrahimovic non è egoista. E’ semplicemente poco democratico, perché non sa lui stesso gestire e limitare la propria insana necessità di primeggiare sempre e comunque, cosa che porta il suo ego ad imporsi arrivando anche a fagocitare i propri compagni di squadra.

Non è egoista, è un despota. Se lo assecondi puoi solo beneficiare della sua vicinanza. Se lo contrasti o non sai adattarti al suo gioco ed al suo ingombro, la tua fine è segnata.

La Sindrome Ibrahimovic è quindi una malattia rara – Ibra è unico per caratteristiche, e raro anche nel suo essere così profondamente condizionante – che colpisce e debilita il sistema di gioco dei club che ne entrano a contatto.

Può sembrare una contraddizione, ma aggiungere Ibrahimovic al proprio reparto offensivo finisce in qualche modo per demineralizzare il gioco della squadra, che sarà dallo stesso subordinata ad accentrare buona parte dei palloni sul proprio vate.

Sindrome Ibrahimovic

Zlatan che è stato portatore sano della Sindrome Ibrahimovic fino a che non si è convinto di essere un fenomeno vero, di quelli in grado di spostare pesantemente gli equilibri.

A quel punto, diciamo in maglia Nerazzurra, ha iniziato a soffrire di ipertrofia egoica, che evolvendosi ha portato la squadra – ed i successivi club in cui ha militato, ad eccezione forse del Barcellona – ad ammalarsi appunto della cosiddetta Sindrome Ibrahimovic.

Gli spartiti sono chiari da tempo: palla a lui, in qualsiasi modo. Ché con la sua qualità tecnica e la sua prestanza fisica, sa essere porto sicuro tanto per un lancio lungo, quanto per un cambio di campo che ancora per un fraseggio nello stretto.
Da lì, poi, il nulla. O il tutto. Dipende da come lo si voglia vedere.

La sinfonia diventa quindi un assolo pressoché costante. La fase offensiva è lasciata in balia di un unico uomo, di fatto, che deciderà quale giocata inventarsi. A seconda delle proprie sensazioni del momento si potrà quindi vederlo andare a cercare la conclusione, lo scambio per liberare il tiro o ancora la rifinitura in favore di qualche compagno fino a lì ignaro di poter essere, nella testa del compagno, la soluzione ideale per chiudere l’azione.

Volendo fare un parallelismo intersportivo, osservare la fase offensiva di una squadra che schiera Ibrahimovic è un po’ come guardare quanto fanno i Cleveland Cavaliers in molte delle loro azioni: isolamento per il fenomeno della squadra e fiducia massima nel suo talento.

Una strategia che spesso paga sui parquet del basket statunitense (sei Finals raggiunte consecutivamente qualcosa vorranno pur dire) quanto sui prati del calcio (13 campionati vinti ed una promozione raggiunta in 16 stagioni non significano certo di meno), se è vero che tanto Lebron James quanto Zlatan Ibrahimovic hanno raggiunto risultati singoli e di squadra ragguardevoli, in carriera.
Una strategia che però ha limiti notevoli, che rischia di cozzare contro l’organizzazione di squadre più affinate (Golden State da una parte come la prima Juventus di Conte dall’altra) e che spesso può finire col lasciare “terra bruciata” dopo la partenza di giocatori così condizionanti.

Eppure nonostante il paragone possa in qualche modo starci proprio per questa continua ricerca dell’isolamento che va a riguardare entrambi, la Sindrome Ibrahimovic mi pare molto più profonda, radicale e radicata di un’eventuale Sindrome LeBron, se è vero che Zlatan riesce ad essere parimenti condizionante pur praticando uno sport in cui, rispetto al basket, ci sono più del doppio dei compagni di squadra.

Sindrome Ibrahimovic

Ovunque andrà, in questi ultimi anni che lo separano ormai dalla fine della sua carriera, Ibra continuerà ad essere il solito calciatore egocentrico, sprezzante e condizionante che abbiamo conosciuto nell’ultima decade.
Un giocatore che, fotografato così, dovrebbe essere la croce di qualsiasi tifoso.

Invece, nonostante tutto, chi non vorrebbe essere colpito dalla Sindrome Ibrahimovic!?


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