Un tuffo nel passato: Maracanaço!

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Il 16 luglio scorso è ricorso il sessantesimo anniversario di ciò che è passato alla storia come Maracanaço, per dirlo in portoghese, o Maracanazo, per dirlo alla spagnola.

Un po’ tutti gli appassionati sanno certamente di cosa si tratta: correva l’anno 1950 e allo stadio Mário Filho, meglio conosciuto col nome di Maracanã, si giocava l’ultimo match della quarta edizione dei Campionati Mondiali di calcio.

La finale, direte voi. Ebbene no.
Perché quell’anno la formula del Mondiale fu molto particolare: le qualificate vennero dapprima divise in quattro gironi da quattro squadre. Le vincitirici di ciascun gruppo, poi, confluirono in un ulteriore girone. Vincerlo avrebbe significato aggiudicarsi la vittoria Mondiale.

Le più grandi aspettative erano ovviamente tutte nei confronti del Brasile padrone di casa, dato vincente ben prima dell’inizio della competizione iridata. Le cose, però, non andarono come tutti si aspettarono…

Iniziamo, comunque, col parlare del percorso compiuto dalle due squadre che quel 16 luglio si trovarono a giocarsi il Mondiale: i Verdeoro, appunto, e la Celeste, già Campione del Mondo vent’anni prima.

I brasiliani vennero inseriti nel Gruppo 1, che superarono senza grandi problemi.
Maiuscolo l’esordio assoluto: un 4 a 0 al Messico firmato dalla doppietta di Ademir e dalle reti di Jair e Baltazar.

I primi scricchiolii della corazzata carioca arrivarono quattro giorni più tardi quando i brasiliani si trovarono ad affrontare gli elvetici al Pacaembù: qui, infatti, la nazionale svizzera riuscì in qualche modo a portare a casa un insperato pareggio, costringendo i padroni di casa a non andare oltre ad un amaro 2 a 2.

Brasile che comunque si rifece poco dopo: ritornati al Maracanã, stadio in cui erano già scesi in campo all’esordio, i brasiliani si liberarono della Jugoslavia, sino a quel momento prima nel girone con due vittorie in due match, grazie alle reti di Ademir e Zizinho.
E girone finale fu.

L’Uruguay, invece, venne inserito nel Gruppo 4 con Bolivia, Scozia e Turchia. Le due compagini europee, però, si ritirarono prima dell’inizio della competizione, così che la Celeste dovette affrontare un solo match, quello coi boliviani. Tutto facile per Miguez (autore di una tripletta) e compagni: un 8 a 0 liscio come l’olio marcato anche dalla doppietta di Schiaffino e dalle reti di Vidal, Perez e Ghiggia.
E girone finale fu.

Il 9 luglio, quindi, Brasile, Uruguay, Spagna e Svezia diedero vita alla prima giornata del girone che avrebbe decretato la squadra Campione del Mondo.

Inizio stentato, quello della Celeste. Opposti agli spagnoli, infatti, gli uruguagi non andarono oltre ad un 2 a 2 che sembrò decretare già la fine dei giochi. Dopo l’iniziale vantaggio di Ghiggia arrivò la doppietta con cui Basora ribaltò il risultato, giusto prima che Varela chiudesse i conti.

Inizio col botto, invece, per il Brasile: 7 a 1 alla Svezia con quattro goal di Ademir, due di Chico ed uno di Maneca. Di Andersson, su rigore, la rete svedese.

Brasiliani che per poco non bissarono il tutto anche quattro giorni più tardi, contro la Spagna. Chico (autore di un’altra doppietta) e compagni regolarono infatti delle meste Furie Rosse con un roboante 6 a 1 completato dalle reti di Jair, Ademir, Zizinho e dall’autogoal di Parra. Di Igoa, invece, il goal della bandiera spagnola.

Nel contempo l’Uruguay, guidato da un Miguez sempre molto prolifico, riuscì in rimonta ad imporsi sulla Svezia.
Svedesi in vantaggio dopo quattro soli minuti di gioco grazie alla rete di Palmer, che venne però pareggiata al trentanovesimo da Ghiggia. Nemmeno il tempo di esultare ed ecco che Sundqvist ristabilisce le distanze, riportando davanti la nazionale nordica.

Proprio quando sembrerebbe essere ormai tutto finito ecco che la Celeste tira fuori il suo proverbiale carattere e nel giro di pochi minuti ribalta il risultato: una doppietta di Miguez, infatti, porta due importantissimi punti alla nazionale sudamericana, che resta quindi virtualmente in corsa per aggiudicarsi la vittoria iridata.

Il giorno prima dell’ultima giornata, quindi, i giochi sembravano fatti. Il destino del Mondiale era infatti tutto nelle mani del Brasile, cui sarebbe bastato un pareggio per aggiudicarsi la vittoria finale.

La stampa internazionale, ed in particolar modo quella carioca, era però convinta che non ci sarebbe stato pareggio quel giorno al Maracanã. Che la fortissima nazionale Verdeoro si sarebbe sbarazzata della Celeste in un sol boccone, infilando un’ennesima goleada.

In Brasile si respirava infatti già aria di festa. La vigilia scorse tranquilla tra caroselli di tifosi già festanti, mentre nelle ore immediatamente precedenti alla partita ci fu l’assalto ai botteghini: nessuno voleva perdersi la partita che avrebbe decretato la vittoria Mondiale del Brasile.
Non per nulla alcune fonti parlano di ben 200mila tifosi presenti quel giorno sugli spalti di un Maracanã effettivamente gremito, trepidante, festante.

L’atmosfera nello spogliatoio Celeste, non a casa, era cupa.
Il tutto venne aggravato dalle parole del dottor Jacobo, capo della delegazione proveniente da Montevideo, che nel suo discorso alla squadra chiese ai giocatori di non perdere per più di quattro goal. Lasciando implicito, quindi, che nessuno credeva in una loro possibile vittoria.

A cambiare le cose si dice fu il grande Obdulio Varela, capitano di quella formazione e uomo carismatico per eccellenza. Dopo aver indossato la propria maglia ed essersi messo la fascia al braccio, infatti, Varela distribuì le camisete a tutti i compagni prima di pronunciare una frase che entrerà nella storia: “Muchachos, los de afuera son de palo“, “Quelli di fuori non contano”. Riferendosi, ovviamente, ai 200mila spettatori presenti. Ma anche al dottor Jacobo e a tutta la delegazione uruguagia, che non credeva in loro.
Ci piace pensare che a cambiare la storia furono proprio le parole di un giocatore di altri tempi, di un leader capace di spronare i propri uomini a rendere anche oltre le proprie capacità. Di un grande uomo, prima che grande giocatore.

Poco dopo, alle tre di pomeriggio di quel 16 luglio storico, l’arbitro inglese Reader decretò l’inizio di un match già scritto.

Il primo tempo fu di marca spiccatamente brasiliana. Nonostante i vari tentativi di bucare la rete di un mai domo Roque Maspoli, però, la nazionale allenata da Flavio Costa non riuscì a trovare la via del goal per tutti i primi quarantacinque minuti di gioco.

Le cose cambiarono dopo due soli minuti dall’inizio della ripresa, e sembrò la fine di un incubo: fu Friaça a sbloccare il risultato, con la complicità di un non certo attentissimo Maspoli.
E quel goal squarciò la cortina di trepidazione che era calata su tutto lo stadio, il pubblico esplose e tornò a credere nella sicurezza di un titolo che non poteva che essere vinto dal Brasile. Ogni singolo spettatore si sentì già in mano la coppa Rimet.

Tecnico, giocatori e pubblico Carioca non avevano però fatto i conti con l’orgoglio di un popolo pronto a non mollare mai, nemmeno quando tutto sembra perduto.

Perché se giochi davanti a più di 200mila persone che ti tifano apertamente contro e finisci sotto vieni ucciso moralmente. Pensare di riprendersi e reagire è utopico.

Eppure quella squadra, che oltre a grande carattere poteva anche contare su due campioni come Schiaffino e Ghiggia, non si inchinò di fronte ad una nazione intera e diede dimostrazione di cosa volesse dire essere uruguaiani.

Venti minuti dopo il vantaggio Carioca, quindi, Ghiggia prese palla sulla destra e dopo una bella progressione sulla fascia saltò Bigode per servire a Schiaffino la palla dell’1 a 1, che raggelò ogni singolo tifoso presente in tutto il Brasile quel giorno.[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=1uvGXdAlq3o]

A quel punto, quindi, l’inerzia della partita passò tutta in favore della Celeste. Perché il pubblico era sì ancora dalla parte della propria nazionale, quella brasiliana. Ma trovarsi in una situazione come quella, dove un solo goal avrebbe portato alla perdita di un Mondiale già dato per scontato, fece tremare le gambe a molti dei ragazzi allenati da Flavio Costa.

A dieci dal termine, quindi, il tutto si concretizzò nel goal della vittoria uruguagia: Perez servì Ghiggia che dopo aver offerto a Schiaffino l’assist per il goal del pareggio decise di firmare da sè la rete che valse il 2 a 1 per l’Uruguay.

Gli ultimi dieci minuti, quindi, si giocarono in un’atmosfera irreale: il pubblicò sugli spalti rimase infatti praticamente ammutolito di lì in avanti, aspettando col fiato sospeso un fischio finale che si sperava non arrivasse mai. I giocatori brasiliani, intanto, si riversarono in massa nella metà campo avversa, cercando un goal del pareggio che, quello sì, non arrivò mai.

Il triplice fischio finale, quindi, non sigillò solo una clamorosa quanto inaspettata sconfitta ma anche un dramma collettivo.

Sugli spalti, infatti, ci furono decine di persone che vennero colte da infarto, alcune delle quali morirono lì.

Anche la cerimonia di premiazione avvenne in sordina. Anzi, quasi non avvenne. Perché tutto era stato preparato per incoronare il Brasile padrone di casa, non l’Uruguay di Varela e soci.
Ecco quindi che sul palco d’onore rimase il solo Rimet, che per altro si dice si fosse preparato un discorso da tenere in portoghese proprio per omaggiare la nazionale Verdeoro e che quindi si limitò solo a consegnare la colpa al capitano Celeste.

Ma non solo: per evitare problemi di ordine pubblico e mantenere intatta l’incolumità dei giocatori uruguaiani gli stessi vennero immediatamente allontanati dal Brasile e fecero subito ritorno a Montevideo. Nonostante il tutto venne effettuato piuttosto rapidamente a rimetterci la salute fu l’eroe di quella partita, Ghiggia, che venne aggredito immediatamente dopo la partita e che fu costretto all’uso delle stampelle per buona parte del periodo successivo.

Il dramma collettivo brasiliano, comunque, non si consumò solo nei minuti immediatamente successivi alla sconfitta.
Nei giorni seguenti, infatti, a fare da contraltare alle scene di tripudio che si potevano vedere per le vie di una Montevideo festante come non mai ci furono decine di suicidi in tutto il Brasile: tra chi non resse alla delusione e chi si era giocato tutti gli averi sulla vittoria finale della nazionale Verdeoro, infatti, in tanti non riuscirono a sopravvivere a quella sconfitta.

E pensare che in seguito a quella inusitata sconfitta vennero proclamati tre giorni di lutto nazionale fa ben capire la portata di quell’evento vissuto così drammaticamente da tutta la popolazione brasiliana.

Lo shock per la sconfitta fu tale che i dirigenti della Federazione calcistica brasiliana decisero addirittura di cambiare il coloro alla maglia: se fino a quel momento la nazionale Verdeoro vestiva di bianco, infatti, di lì in poi sarebbe passata dapprima ad una divisa blu per terminare, poi, con l’attuale colorazione.

Qualche tempo più tardi l’eroe di quel match, Ghiggia, commentò così la sua prestazione: “A sole tre persone è bastato un gesto per far tacere il Maracanã: Frank Sinatra, il Papa e io“.
E proprio a Ghiggia, giusto l’inverno scorso, è stato poi permesso di lasciare l’impronta dei propri piedi nella “Calçada da Fama“, la walk of fame riservata ai grandi calciatori protagonisti di partite memorabili disputatesi all’Estadio Mario Filho. Quasi sessant’anni per perdonare chi aveva fatto piangere un popolo intero solo con un goal.

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